“Considerazioni sul Teatro” I Parte

   In chiusura dell’unico articolo consacrato al “Simbolismo del teatro” René Guénon afferma perentoriamente: ”Per cui, da qualsiasi punto di vista ci si ponga, si ritrova sempre nel teatro quel carattere che è la sua ragione profonda – per quanto ignorata essa sia da coloro che l’hanno ridotto a qualcosa di puramente profano – carattere che è quello di costituire – per sua stessa natura – uno dei simboli più perfetti della manifestazione universale.[i]  

  Una tale autorevole investitura assume un significato particolare per chi prova ancora emozioni in uno spettacolo teatrale e sente che il palcoscenico è un ingresso verso un altro mondo. 

  Un elemento imprescindibile di ogni spettacolo è la sospensione della razionalità. Il cappio che ci tiene per il collo non deve limitarci. La messa in scena è efficace solo se crediamo a quanto sta accadendo, se partecipiamo e parteggiamo, se entriamo in un’altra dimensione. Il tempo scorre con ritmi diversi, anni sono condensati in pochi momenti,  molte e varie vite si esauriscono. Lasciamo spazio allo stupore e attribuiamo ai protagonisti qualità o difetti che fingono di avere.

  L’autore, che sovente è tutt’uno con l‘attore, manifesta il suo mondo e ci fa partecipare, così come la Potenza Creatrice fa ogni giorno nella nostra vita. Dobbiamo tornare bambini, semplici e puri.

  D’altra parte un approccio così naïf ci trasporterebbe da un’illusione ad un’altra. In tal caso cederemmo ad un’altra modalità del potere incantatore di Maya anche se la commistione tra quella che chiamiamo realtà esteriore e un’altra, palesemente artificiale, dovrebbe darci degli indizi per svelare l’inganno. Nella finzione scenica, così come… “Nello stato di sogno l’«anima vivente» individuale (jîvâtmâ) «è essa stessa la sua luce», e produce, per effetto del suo solo desiderio (kâma), un mondo che procede interamente da se stessa, e i cui oggetti consistono esclusivamente in concezioni mentali, vale a dire in combinazioni di idee rivestite di forme sottili, che dipendono sostanzialmente dalla forma sottile dell’individuo stesso,” … Questa produzione, d’altronde, ha sempre qualche cosa di incompleto … mentre, nel mondo sensibile, nel quale si trova allo stato di veglia, la stessa «anima vivente» ha la facoltà di agire nel senso di una produzione «pratica»… Tuttavia è bene osservare che questa differenza, nel rispettivo orientamento dell’attività dell’essere nei due stati, non implica una superiorità effettiva dello stato di veglia su quello di sogno, … anzi, sotto un altro aspetto, le possibilità dello stato di sogno sono più estese di quelle dello stato di veglia, e permettono all’individuo di sfuggire, in una certa misura, ad alcune delle condizioni limitative alle quali è sottomesso nella sua modalità corporea.” [ii]

  L’anima vivente è quindi l’autrice delle innumerevoli trame che si intrecciano nel mondo. A noi sfugge l’ordito, la componente verticale e assiale.

  Nessuno di noi andrebbe a farsi curare dall’interprete del Dottor House o a confessarsi da Don Matteo, alias Terence Hill, ed è in ciò che consiste la superiorità dello stato di veglia. Pensiamo però al vantaggio che ha l’attore nei confronti dell’uomo comune: l’interprete conosce il futuro, ed ogni suo gesto è irripetibile, unico e perfetto.[iii]  Questa contraddizione tra la superiorità della conoscenza e l’apparente limitazione o negazione della libertà di scelta è trattata con grande sapienza in un’opera teatrale scritta dal drammaturgo inglese Tom Stoppard nel 1964, “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”.

   I due protagonisti sono personaggi minori dell’Amleto la cui morte viene solo comunicata nell’ultimo atto della tragedia. Nel film non riescono a sottrarsi al loro “copione” attraversando vicende a metà tra il reale e il fantastico che è difficile stabilire se si svolgano o meno in un palcoscenico, ritrovandosi poi nell’irrinunciabile finale a terminare la loro esistenza.

  I miti vedici delle città popolate da automi di legno si inseriscono in questo discorso ed il filo che anima queste marionette [iv] è retto dall’“intimo Reggitore” (antaryāmin)[v]. Ne consegue che la libertà per l’uomo non è recidere (illusoriamente) i fili ma riconoscere questa dipendenza dal Principio che non è esteriore (“Il Regno dei Cieli è dentro di voi”) e imparare il copione (il piano del Grande Architetto dell’Universo).

  Quali sono gli unici esseri, oltre agli attori e le marionette, che sanno da dove vengono e dove vanno?

  “ Gesù rispose: «Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado…”” Vangelo secondo Giovanni 8, 14

““Il Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno”. Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?””  Vangelo secondo Luca 9, 22-25

  Gli Avatara sanno esattamente a cosa vanno incontro e chi è che tenta di distoglierli dalla loro funzione, dal loro copione? L’avversario, Nafs, l’anima individuale.[vi] 

  In Oriente, in India e Giappone sussistono tuttora forme di teatro pienamente rispondenti ai dettami tradizionali con codificazioni rituali rigorosissime. Esistono manuali che descrivono con dovizia di particolari le posizioni e i movimenti delle mani nella danza rituale.[vii]  

  In forme iniziatiche cinesi vi sono chiari riferimenti: “Un’altra importante fonte per la conoscenza del simbolismo della Triade è il suo rituale d’iniziazione, esplicitamente paragonato nel suo gergo a una rappresentazione teatrale. Partecipare al rito è detto «andare a teatro», entrare nella Tien-ti-houei «venerare il palcoscenico» e il recipiendario «teatrante»: ma si tratta di un teatro «misterico», dove l’«attore» viene condotto in un viaggio attraverso altri mondi.”[viii] 

  In Occidente invece partendo dalla classicità greca è possibile individuare momenti di discontinuità che allentano o rafforzano i contatti con il Centro. Tali evoluzioni sarebbero individuabili in parallelo anche in altre forme artistiche accettando il presupposto che “…tutti [arti e mestieri] possedevano un valore [iniziatico] di tal genere per il fatto di essere ricollegati a un principio superiore dal quale procedevano quali applicazioni contingenti, e sono diventati profani – come abbiamo spiegato assai di frequente – soltanto in conseguenza del decadimento spirituale dell’umanità lungo il corso della marcia discendente del suo ciclo storico.”[ix]

   Il teatro classico greco era inscindibile dai Misteri Dionisiaci costituendo un rito in cui le vicende esemplari erano narrate dal Coro. A Tespi (VI sec. a.C.), personaggio semileggendario, si attribuisce l’introduzione dell’attore singolo che interagisce con il coro e la nascita delle compagnie itineranti.

  In seguito con l’indebolirsi della Tradizione classica l’attore da officiante divenne umano, abbandonando la maschera, componente rituale fondamentale, facendo così emergere non più la “personalità” cioè il Sé, ma gli “accidenti” individuali. 

  A Roma si parla di una “laicizzazione” del teatro, più staccato ancora dalla sua funzione originale. Il nascente Cristianesimo lo osteggia, non solo da un punto di vista morale, come farà molto tempo dopo in particolare il Puritanesimo[x], ma per neutralizzare i residui della Tradizione classica decadente. 

   Tra i tanti Tertulliano (155– 230) dedicò parole di fuoco contro istriones e mimi mentre Sant’Agostino (fine IV secolo) esultò alla distruzione dei teatri.

   La marginalità della professione attoriale permarrà a lungo ma, in un particolare periodo di rigoglio  dell’arte e della spiritualità cristiana fiorirà una figura depositaria di insoliti privilegi, non solo materiali.   



[i] Il simbolismo del teatro p.227 c.28 di “Considerazioni sull’iniziazione”

[ii] R. Guénon “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta” c. XIII

[iii] Queste considerazioni sono suggerite da Maurizio Nicosia ne “L’attore, la maschera e il destino” reperibile on line in http://www.zen-it.com/symbol/attore.htm

[iv] In una recensione del numero di luglio della rivista “The speculative mason” del 1940, Guénon riporta: “…vi è una nota su alcune vestigia degli antichi Misteri che si sono conservate fino ai nostri giorni, in modo inaspettato, nel Teatro delle marionette (ed è questo un esempio di ciò che noi abbiamo già detto sulle origini reali del «folklore»)” In “Studi sulla Massoneria e il Compagnonaggio” vol.II p.120

[v] A.K. Coomaraswamy “Il Grande Brivido” p. 435 n.41 e p.474 n.17

[vi] Id. “Chi è Satana e dov’è l’inferno” c.2 de “La tenebra divina”, Adelphi, Milano 2017

[vii] Nandikeśvara  “Lo specchio del gesto”, a cura di A.K. Coomaraswamy, Casadei Libri, Roma 2001

[viii] “Le Società del Cielo e della Terra” su Rivista “La Lettera G” num.17

[ix] Il simbolismo del teatro p.224

[x] La paura dell’arte, dominante tra i puritani nasce, in parte, dall’incapacità di riconoscere che l’esperienza estetica non dipende affatto dal piacere o dal dolore e quando la difficoltà immediata non è questa, la loro paura deriva dalla diffidenza verso ogni esperienza che sia “al di là del bene e del male” e manchi, così, di uno scopo rigorosamente morale.”  da Coomaraswamy, “La danza di Śiva”, Luni, Milano 1997, c.III p.45

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