"La sacralità dell'abitazione" - Estratti (II)


L’abitazione come Paradiso terrestre

    I numerosi rimandi al simbolismo del Centro che abbiamo già evidenziato nella struttura dell’abitazione tradizionale convergono […] a fare dell’abitazione e a maggior ragione del tempio unimmagine del Centro primordiale: il Paradesha della tradizione indù, il Paradiso terrestre o Eden di quelle di ascendenza abramica. Questo perché «l’homo religiosus  sentiva il bisogno di vivere sempre nel Centro… di non allontanarsi dal Centro e non perdere il contatto con il mondo ultraterreno»;[1] contatto del quale, secondo il racconto biblico, godevano in quel luogo i primi uomini «che appena nati discernevano di essere creati da Dio» e ivi «fruivano del colloquio e della presenza di Dio».[2] E perciò quel che intermini macrocosmici viene denominato Eden ha il suo corrispettivo microcosmico nell’intelletto umano originariamente incontaminato, in contatto diretto con Dio.

   Nella sua più consueta rappresentazione questa contrada primordiale è un ameno giardino che ha al centro l’Albero e al tempo stesso la Fonte della Vita (o la “fontana dell’eterna giovinezza”) dalla quale si dipartono a croce quattro fiumi. Se l’abitazione nomade, col suo riferimento assiale equivalente all’Albero della Vita, in un certo senso rifonda l’Eden nel luogo dove è collocata, la casa stanziale più spesso lo riproduce al suo interno, ad esempio come un conclusus hortus, benché il giardino “paradisiaco” possa anche, al contrario, contenere dei padiglioni al suo interno, come nell’architettura persiana dell’epoca sasanide (ca. 200-600 d.C.).

   Il prototipo di questi horti per il mondo occidentale è la domus romana con i suoi due cortili quadrangolari, e specialmente con il secondo, più interno e riservato, circondato da un portico (peristylium) con al centro una piscina contornata da vegetazione e i locali abitativi disposti sul perimetro.[3] C’è una sorta di continuità fra questo cortile e il chiostro dei monasteri e dei conventi,[4] anch’esso porticato nel contorno che ospita le celle, e con un pozzo al suo centro. Nel chiostro il lento passo dei monaci lungo il perimetro è scandito dalle colonne del portico, quasi gradi successivi del cammino spirituale; il portico stesso, come la nicchia, è un ulteriore richiamo architettonico verso l’interiorità.47omissis La somiglianza del chiostro con la descrizione biblica del Paradiso terrestre viene accentuata dalla particolare cura delle piante che vi sono coltivate e nella partizione dello spazio realizzata da quattro sentieri che si diramano dal pozzo a imitazione dei fiumi edenici.[5]

   In alcuni monasteri o conventi il pozzo al centro del chiostro è sostituito da un albero, […] accanto alla tenda o alla casa, [e] in alcune culture, è d’obbligo piantare o trapiantare, in caso di spostamentol’albero sacro, o un palo sacro che è anche il “palo del sacrificio”.49omissis La specie arborea considerata sacra varia […] ma evidentemente ognuna di esse è un sostituto dell’Albero edenico,50omissis così come il Centro realizzato dall’edificazione rituale dell’abitazione come pure del tempio e della città è un sostituto del Centro primordiale. Talvolta di fronte all’ingresso si trovano invece due alberi, ad esempio due palme, come davanti ai templi dell’antico Egitto c’erano due obelischi e spesso davanti alle moschee c’è una coppia di minareti, con un significato sia di assialità che di dualità pertinente al simbolismo della porta…[6]

   Nell’abitazione familiare un valore edenico si evidenzia nella camera matrimoniale o in un corrispondente spazio, nella tenda, riservato agli sposi. (pp.21-24)

   … Più in generale, tutto lo spazio racchiuso nell’abitazione […] rimanda al simbolismo dell’Albero della Vita e può rappresentare per la famiglia un Eden o un’Arca di Noè.[7] […] Questo «carattere introvertito dell’architettura, d’aspetto spesso povero all’esterno, ma di una beltà e di una ricchezza inattese all’interno» e «questa stessa forma dell’abitazione, trincerata verso il mondo circostante e aperta sul cielo»[8] appartengono evidentemente a epoche e civiltà che hanno voluto mettere un baluardo contro il mondo profano, abbandonato sulla soglia insieme alle scarpe che ne recano la polvere, e al tempo stesso hanno voluto mantenere aperta la comunicazione con l’Alto, giacché «l’uomo delle società tradizionali non poteva vivere che in uno spazio “aperto” verso l’alto… dov’è ritualmente possibile la comunicazione con il mondo “trascendente”».[9]Ciò viene realizzato simbolicamente lasciando la parte centrale e interiore dell’edificio a cielo aperto[10]  dove il clima lo consenta, ma può anche attuarsi con una copertura a cupola oppure a volta (che del Cielo offre allora un'immagine, talvolta enfatizzata da affreschi a trompe l'oeil raffiguranti il cielo aperto[11]), più spesso realizzata in ville nobiliari, palazzi o luoghi di culto;[12] […] L’architettura moderna, in forza delle possibilità offerte dai nuovi materiali, ha ritenuto di potersi svincolare dalla necessità di una copertura a volta e ha realizzato soffitti di varia forma privi di significato simbolico, e per lo più ha cementato la parte superiore della stanza o dell’edificio con un soffitto piatto e incolore, senza alcuna raffigurazione o richiamo al Cielo.[13] Così la casa o peggio la chiesa ha finito spesso per assumere forme che escludono qualsiasi aspirazione verso l’Alto. L’edificio resta pervio solo verso il mondo terreno con porte e finestre, e verso il sottosuolo tramite gli scarichi fognari. Non è necessario spendere delle parole per mostrare a quale orientamento dello spirito corrisponda tutto questo. (pp.24-27)

   Non v’è necessità di chiosare una trattazione così approfondita. Prendo spunto dalla parte finale che dimostra come l’abbandono di un punto di vista tradizionale porti conseguenze a ogni livello e che, in un certo senso, sia impossibile celarlo. Sulla (perduta) qualità costruttiva delle chiese moderne così si esprime Angelo Crespi nell’introduzione al suo tagliente saggio[i]: “Le chiese contemporanee assomigliano spesso a capannoni industriali, piscine, bar, autorimesse. Non hanno quasi mai la facciata, e i campanili sono un labile ricordo. All’interno sono spaesanti e asettiche come sale d’attesa e al posto della cupola c’è il soffitto che fa pensare non a Dio ma all’inquilino del piano di sopra. I rosoni sono sostituiti dai lucernai e le immagini sacre da anodine opere d’arte astratta che rimandano a una vaga spiritualità senza trascendenza; in omaggio al minimal, gli altari sembrano usciti da un catalogo Ikea. L’orrore dei nuovi edifici di culto è il pegno che la Chiesa paga alla contemporaneità: dopo il Concilio Vaticano II, essa ha dismesso le forme della tradizione preferendo le più ardite stravaganze architettoniche o, peggio, aderendo con giubilo alla burocrazia delle commissioni urbanistiche.

   Guénon[ii] ha spiegato che, in un arco temporale esteso, il cambiamento dei materiali da costruzione è indice della progressiva “solidificazione” del mondo. Il passaggio dal legno alla pietra è stato il salto più significativo. Inoltre ha fissato, a metà del XV secolo, “il compimento della rottura del mondo occidentale con le proprie dottrine tradizionali”, segnato dalla perdita dell’antica denominazione di “arte sacerdotale”.[iii]

   L’apertura verso il basso, conseguenza della chiusura verso l’alto, è la transizione dalla “solidificazione”, improntata a un rigido materialismo, alla “dissoluzione”, culla della falsa spiritalità.[iv] 

 

 

 



[1] M.Eliade, Le sacré et le profane, Paris 1965, I, 6.

[2] A. Steuco, De perenni philosophia I, I.

[3] Anche la casa omerica aveva una corte (aulè) circondata da portici; tuttavia, secondo numerose testimonianze degli scrittori latini, la casa romana deriva da quella etrusca, che rimpiazzò in un secondo tempo le antiche capanne circolari con tetto curvo…

[4] Nella biografia di S. Benedetto scritta da Gregorio Magno si sottolinea che il santo si sentiva e si proclamava romano. Non stupisce che i Benedettini, conservatori della cultura romana nei “secoli bui” susseguiti alla “caduta” dell’Impero d’Occidente, abbiano perpetuato nella planimetria dei loro monasteri, imitata da quasi tutti gli Ordini religiosi occidentali, l’impianto della domus romana; del resto lo stile da essi adottato era “romanico” per definizione. È stato ipotizzato che questa preservazione dei valori della romanità, inclusa la paziente trascrizione dei suoi testi, fosse stata progettata dal  monachesimo altomedievale in vista di una futura restaurazione dell’Impero romano in Occidente; a posteriori è fin troppo facile concludere che il successo di Carlo Magno sarebbe stato impossibile senza una tale opera di preservazione.

[5] Nei chiostri medievali prevalevano le piante da fiore, quella aromatiche e quelle officinali. Questa scelta […] doveva contribuire a dare una valenza “edenica” al chiostro, poiché si riteneva che le spezie prendessero il loro odore e il loro sapore dall’Albero della Conoscenza (in virtù dell’assonanza linguistica e simbolica tra sapore e sapere), e del resto erano in gran parte provenienti dall’Oriente (e perciò più vicine all’Eden, giardino piantato in Oriente, secondo il libro del Genesi)…

[6] …Si noti […] che le vecchie ville siciliane hanno tipicamente due palme davanti alla facciata; queste considerazioni inducono a rivedere con altri occhi anche i filari di alberi, e soprattutto i doppi filari, ad esempio di cipressi, che conducono all’ingresso di un’abitazione o di una chiesa; in quest’ultimo caso sembrano prolungarsi nella doppia fila di colonne della navata, e non è fuori luogo ricordare che nei templi egizi la doppia fila di colonne aveva decorazioni vegetali che ne facevano altrettanti alberi sulla sponda del Nilo, rappresentato dalla corsia centrale (cfr. J. Rykwert, op. cit., cap.6). Non è da escludere che proprio per questo significato dei filari di alberi le vie cittadine medievali non siano mai state alberate benché vi fossero molti alberi nei numerosi orti cittadini visto che la cosa non avrebbe avuto alcun significato: l’uso nelle città di boulevards alberati che non portano a nessun edificio sacro, per quanto possa risultare gradevole, è tipico della modernità e della sua inosservanza del simbolismo. Lo stesso si può dire del parco cittadino che, al contrario del conclusus hortus di tipo “edenico”, è aperto da tutti i lati o al massimo da un’inferriata per motivi di ordine pubblico, oltre a essere solitamente privo di alberi da frutto. Tornando ai cipressi, questi alberi originari della Persia e sacri per gli zoroastriani erano stati importati dai Romani; è improbabile che chi continua a piantarli in Toscana e in altri luoghi sia consapevole del simbolismo suggerito dalla loro forma colonnare. Tuttavia questo simbolismo in qualche modo si perpetua, e lo si vede soprattutto nei cimiteri, dove il cipresso per tacito consenso segna il sito della dimora dei defunti.

[7] Più recentemente sono esistiti stili abitativi come il Biedermeyer, particolarmente orientati all’intimità degli ambienti; in questi casi si tratta della degradazione sentimentale del valore edenico dell’abitazione. Non si può certo negare che simili ambienti siano confortevoli, ma l’Eden domestico così realizzato è totalmente privato e profano: come ha scritto H. Sedlmayr, non si potrebbe immaginare una chiesa Biedermeyer (cfr. Verlust der mitte, trad. it. La perdita del centro   cap.1). Simbolismo edenico e intimità domestica non sono affatto obbligati a coesistere. Nel medioevo e nel rinascimento la camera nuziale non era un locale sempre e solo riservato e ancora in epoche relativamente recenti personaggi di rilievo incluse le coppie regnanti ricevevano visitatori e davano udienza stando nel letto coniugale. Né la casa medievale, in Occidente, era un luogo di particolare intimità per gli uomini, che vivevano soprattutto per la strada; lo era semmai per le donne, che vi passavano gran parte della giornata e vi esercitavano i mestieri femminili.

[8] T. Burckhardt, Fès, ville d’Islam, Milano 2007, p.8.

[9] M. Eliade, Le sacré et le profane, cit., I, 6.

[10] In tal modo si può anche raccogliere l’acqua piovana, come si faceva nella domus romana grazie ai tetti a impluvio. […] Si realizza così una corrispondenza tra le preghiere e il fuoco del focolare domestico che salgono verso il Cielo, e la benedizione divina e l’acqua che scendono sulla terra.

[11] Osserva H. Sedlmayr che il barocco è l’ultimo stile architettonico nel quale sussiste questa apertura almeno virtuale (cfr. op. cit.). All’esterno la cupola, soprattutto negli edifici sacri, può essere dipinta o piastrellata con colori “celesti” come l’azzurro o “paradisiaci” come l’oro.

[12] Tipicamente le chiese cristiane hanno la cupola e/o il tetto a spioventi. Nel mondo isòamico, dove per le moschee viene adottata più spesso la tipologia a cielo aperto, la copertura della cupola è riservata generalmente alle tombe dei santi. Fanno eccezione alcune moschee a cupola, frequenti ad es. a Istanbul, dove gli architetti si sono voluti misurare con la preesistente architettura bizantina (ad es. secondo la committenza data da Solimano all’architetto Sinān, di ispirarsi alla chiesa di Santa Sofia, per mostrare in tal modo il proprio subentro alla guida dell’ex-impero bizantino).

[13] Fanno eccezione i soffitti piatti dei moderni teatri all’italiana, a volte dipinti con immagini di cieli a trompe l’oeil. Può darsi che ciò dipenda da una reminiscenza della struttura a cielo aperto dei teatri dell’epoca elisabettiana (fatti a immagine del cosmo, come è stato evidenziato da F.A. Yates per il Globus di Shakespeare e per altri teatri simili cfr. Theatre of the world, London 1969).



[i] A. Crespi, Costruito da Dio. Perché le chiese contemporanee sono brutte e i musei sono diventati le nuove cattedrali, Johan & Levi Editore, Monza 2007.

[ii] R. Guénon, Maçons et charpentiers, in Études Traditionnelles, dicembre 1946. Cap.1 di Studi sulla Massoneria e il Compagnonaggio Vol.II, Arktos, Carmagnola 1991.

[iii] Id., Autorité Spirituelle et Pouvoir Temporel, Éd. Guy Trédaniel, 1964, trad. it. Autorità spirituale e potere temporale, Luni, Milano 1995, p.32

[iv]  Id., Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Gallimard, Paris 1970, trad. it. Il regno della quantità e i segni dei tempi, Adelphi, Milano 2009, cap. XXIV, XXV.


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