La concezione tradizionale dell'arte in René Guénon
“L’arte dei costruttori del Medio Evo può essere menzionata come un esempio particolarmente notevole di queste «arti tradizionali», la cui pratica implicava d’altronde la conoscenza reale delle scienze corrispondenti.”[1]
Nella pars destruens fa emergere l’anomalia del punto di vista profano, che comporta una contrapposizione tra la figura dell’artista, ammantata di superiorità in una sorta di hortus conclusus distante dalle necessità pratiche di ogni giorno, e quella dell’artigiano, umile esecutore senza pretese intellettuali. In ambito tradizionale invece esiste l’artifex che esercita un’arte derivante dai principi, non soggetta all’arbitrio individuale. Il motto Ars sine scientia nihil delinea la dipendenza dell’arte dalla conoscenza.[1] Si tenga conto che la stessa distinzione tra arti e scienze non era così netta in passato, come si evince dall’elenco delle sette arti liberali formanti il Trivio, grammatica, retorica e dialettica, e il Quadrivio, aritmetica, geometria, musica e astronomia.[2]
Inoltre, il prevalere della quantità a scapito della qualità porta a pensare che ci sia una perfetta interscambiabilità di ruoli, per cui un uomo può cambiare attività senza conseguenze, potendo a sua volta essere facilmente sostituito. Al contrario, in una civiltà tradizionale, ognuno deve seguire lo swhadarma[3], cioè la propria predisposizione interiore, mettendosi così in condizione di favorire il proprio sviluppo spirituale, in virtù della legge di corrispondenza che lega corpus, anima e spiritus. Rivestire correttamente un ruolo era fattore non secondario di stabilità sociale, così come la confusione moderna è figlia del mancato rispetto dello swhadarma, bellamente ignorato. A nostra parziale consolazione pensiamo che Dante stesso lamentava che…
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.
Altro punto di netta distinzione è la moderna, sia pur non recente, necessità di firmare l’opera. Pensiamo alle dispute a suon di perizie relative all’attribuzione di quadri che, permanendo immutati, oscillano tra quotazioni astronomiche o modeste solo in base alla loro paternità. Al contrario l’anonimato dell’artista è un segno del sacrificio dell’individualità che si richiede per poter eseguire a regola d’arte il proprio compito, rifuggendo dall’originalità in senso moderno che invece è eccentricità fine a se stessa.[5]
D’altra parte, “l’estinzione dell’«io» non è in alcun modo una annichilazione dell’essere, ma al contrario essa implica una specie di «sublimazione» delle sue possibilità (diversamente, osserviamolo di sfuggita, la stessa idea di «resurrezione» non avrebbe alcun senso); senza dubbio l’artifex che si trova ancora nello stato individuale umano non può che tendere verso una simile «sublimazione», ma il fatto di conservare l’anonimato sarà appunto per lui il segno di questa tendenza «trasformante».[6]
Tiene ben presente che “ciò che costituisce la base di tutte le arti è principalmente un’applicazione della scienza del ritmo nelle sue diverse forme, scienza che a sua volta si ricollega direttamente a quella dei numeri;”[8]. Nella poesia la percezione del ritmo è immediata dovendo utilizzare, almeno virtualmente, il «linguaggio degli Dei», la «lingua sacra»[9] per eccellenza. Si pensi a quale reverenza Dante mostri verso i poeti dell’antichità incontrati nel Limbo, ove
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno. Inf. IV, 100-102
“Avremo diverse occasioni di vedere, in seguito, l’importanza fondamentale del simbolismo dei numeri nell'opera di Dante; e, se questo simbolismo non è d’impronta esclusivamente pitagorica, se lo si ritrova in altre dottrine per la semplice ragione che la verità è una sola, possiamo nondimeno considerare che, senza dubbio alcuno, da Pitagora a Virgilio e da Virgilio a Dante la «catena della tradizione» in terra italiana non fu mai interrotta.”[10]
D’altro lato, “per le arti plastiche, le cui produzioni si
collocano nello spazio, tale dipendenza [dal ritmo] non appare così immediatamente, eppure essa non è meno rigorosamente
vera; solo che, qui, il ritmo è fissato per così dire in modo simultaneo,
invece di svilupparsi in successione come nei casi precedenti. Lo si può
comprendere facilmente tenendo presente che, in questo secondo gruppo, l’arte
tipica e fondamentale è l’architettura, di cui le altre, quali la scultura e la
pittura, non sono insomma, almeno secondo la loro destinazione originaria, che
arti da essa dipendenti; ora, nell’architettura, il ritmo si esprime
direttamente nelle proporzioni esistenti fra le diverse parti della
costruzione, ed anche nelle forme geometriche, le quali non sono in definitiva
che la traduzione spaziale dei numeri e dei loro rapporti.”[11]
Inoltre “…si può rammentare anche la parola biblica secondo cui Dio ha «disposto tutte le cose in misura, numero e peso»; (n.4. «Omnia in mensura, numero et pondere disposuisti» (Sapienza, XI, 20).) tale enumerazione, manifestamente riferibile ai diversi modi di essere della quantità, è come tale applicabile letteralmente al solo mondo corporeo, ma vi si può vedere, mediante un’appropriata trasposizione, anche un’espressione dell’«ordine universale».[12]
Nella recensione del testo di Ananda K. Coomaraswamy, Figures of Speech or Figures of Thought, Luzac and Co., London. può protestare, riportando il pensiero, sicuramente tradizionale, del noto studioso “…contro la concezione «estetica» e contro la pretesa di applicarla all’interpretazione e all’apprezzamento dell’arte delle altre epoche e degli altri popoli: mentre questi vedevano prima di tutto nell’arte un certo tipo di conoscenza, i moderni l’hanno ridotta a un mero affare sentimentale, e hanno inventato una teoria dell’arte che, invece di essere una «retorica» nel senso in cui la intendevano gli antichi, è, a voler essere precisi, solo una «sofistica». È così che quelle che erano un tempo vere «figure di pensiero», cioè simboli adeguati alle idee che bisognava esprimere, sono viste oggi solo come semplici «figure di parole», destinate unicamente a provocare certe emozioni; e quello che è vero a questo proposito per le arti della parola può essere esteso a tutte le altre forme dell’arte, che sono state egualmente svuotate di ogni significato reale. Invece di sforzarsi di comprendere le opere d’arte, vale a dire in conclusione di prenderle come quei «supporti di contemplazione» che esse debbono essere normalmente, i moderni vi ricercano solo l’occasione di quanto essi chiamano un «piacere estetico disinteressato», il che è una contraddizione in termini;”[13]
Vuota verbosità e autoreferenzialità che si pongono contro la concretezza, non in senso materialistico, di una società guidata da principi superiori concordemente accettati, in grado di “dare a ciascuno il suo”.
La stessa “sepoltura” nei musei sancisce la malintesa “inutilità” delle opere d’arte, perfettamente spiegata da Coomaraswamy.[14]
Un altro
preconcetto, pressoché inscalfibile non solo negli ambienti universitari, è
ostacolo a una corretta comprensione del significato dell’arte, specie quella
del lontano passato. Commentando in una recensione le difficoltà a veder
riconosciuto il valore di alcuni dipinti preistorici Guénon riporta,
sottoscrivendola, questa considerazione: “La
ragione di queste negazioni, in fondo, è il fatto che «la mentalità occidentale
era compenetrata della convinzione che la cultura della nostra epoca fosse la
più alta che l’uomo avesse mai raggiunta, che le culture più antiche non
potevano in alcun modo essere confrontate alla grandezza della esistenza
scientifica moderna, e in particolare che tutto quanto si era sviluppato prima
dell’inizio della storia poteva solo essere considerato come “primitivo” e
insignificante a confronto dello splendore del XIX secolo».”[15]
L’evoluzionismo applicato in ogni settore autorizza a tenere un atteggiamento di sufficienza verso tutto ciò che non abbia il crisma della modernità, senza che la sete di novità dell’attuale umanità si plachi.
In definitiva, se ci spoglia dei pregiudizi così tenacemente inculcati ai giorni nostri, si può avvertire l’irriducibilità tra due visioni antitetiche: da una parte la supremazia dell’emozione e del superfluo, in nome di una libertà espressiva che ormai è arbitrio e licenza in un fortino difeso da truppe di critici, studiosi e commercianti d’arte; nell’altro fronte, pressoché scomparso in Occidente, abbiamo un’arte che è un tutt’uno con la conoscenza destinata a soddisfare le esigenze più profonde dell’uomo, quelle indicate dalle parole del Cristo:
Sanremo, 1 giugno 2022
Sergio Castellino
Si prega, in caso si usufruisse di questo scritto, di citarne la fonte, grazie.
BIBLIOGRAFIA
Cap. 4 Scienza
sacra e scienza profana
Cap. 2 La Fede Santa
Cap. 1
Parte II L’iniziazione e i mestieri
“” 3 “” II
Le
arti e la loro concezione tradizionale
Il Regno della Quantità e i segni dei tempi
Cap. 3 Misura
e manifestazione
“” 8 Mestieri antichi e industria moderna
“” 9 Il doppio senso dell’anonimato
“” 21 Caino e Abele
Cap. 7 La Lingua degli Uccelli
[1] Cfr. Id., Le Regne de la Quantité et les signes des temps, Paris 1945; trad. it. Il Regno della Quantità e i segni dei tempi, Adelphi, Milano 2009, cap. 8.
[2] Cfr. Id., L’ésoterisme de Dante, Paris 1925; trad. it. L’esoterismo di Dante, Adelphi, Milano 2001, cap. 2.
[3] Cfr. Id. Mélanges, Paris 1976; trad. it. Mélanges, Venezia 1978, Parte II cap. 1.
[5] Cfr. Ibid., cap. 9.
[6] Ibid., p. 67.
[7] Cfr. Ibid., cap. 21.
[8] Id., Mélanges, cit., p. 114.
[9] Cfr. Id., Symboles de la Science sacrée, Paris 1962; trad. it. Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1997, cap. 7.
[10] Id. L’ésoterisme de Dante, cit., p. 23.
[11] Id., Mélanges, cit., p. 115.
[12] Id., Le Regne de la Quantité et les signes des temps, cit., p. 33.
[13] Id., Comptes Rendus, Paris 1986; trad. it. Recensioni, Luni, Milano 2005, p. 67.
[14] A. K.
Coomaraswamy, Why exhibit Works of Art?,
in «Journal of Aesthetics», Fall Issue, New York 1941, trad. it. Come interpretare un’opera d’arte, Rusconi,
Milano 1977, cap. 1.
[15] Id., Comptes Rendus, cit., p. 22.
[1] R. Guénon, La crise du monde moderne, Paris 1927; trad. it. La crisi del mondo moderno, Ed. Il simbolismo, Torino 2022, p. 79 in nota.
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