Alla Fiera dell'Est. Intuizione e ragione

 




 

                                                            "... tu vedrai le genti dolorose

ch'hanno perduto il ben dell'intelletto."

       Inf. III 17-18

“Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: 

"Forse tu non pensavi ch’io löico fossi!".

Inf. XXVII 120-123


Molti conosceranno questi versi della canzone “Alla Fiera dell’Est” di Angelo Branduardi:

“Alla fiera dell'est, per due soldi, un topolino mio padre comprò…
E venne il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane,
che morse il gatto, che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò…”

     Si tratta di un adattamento di un canto pasquale ebraico dal titolo Had Gadyà, Ha una curiosa somiglianza con la filastrocca inglese "The House That Jack Built", pubblicata nel 1797.[1] 

   Questo antichissimo caratteristico ritmo popolaresco, tanto noto fino ad esser divenuto proverbiale, può considerarsi illustrazione e commento a mezzo di esemplificazione, del passo di Ecclesiaste V. 7: « Se vedi nel paese l’oppressione del povero e la violazione del diritto e della giustizia, non ti stupisca il fatto; perché uno più alto vigila su chi è alto, e c’è su di loro chi sta più alto ancora ». Il capretto è Israele oppresso. Gli altri elementi che figurano nel canto sono altrettanti strumenti, coscienti o no, della giustizia divina, che volta a volta puniscono e sono puniti.[2]

  Vorrei proporre un’altra spiegazione del significato del brano che peraltro non contraddice quella riportata qui sopra.

 Questa sequenza, perfettamente logica e che potrebbe prolungarsi ad libitum descrive una vicenda che inizia ad Est (Oriente, origine) con un topo, animale sfuggente associato sia all’elemento animico sia alla molteplicità, ed è troncata dall’arrivo prima dell’Angelo della Morte che interrompe la sequenza degli esseri, e poi dalla venuta del Signore.

   Vi si può vedere rappresentato lo sviluppo delle possibilità di un ciclo fino alla fine dei tempi[3], quando la successione sarà convertita in simultaneità e la ruota cesserà di girare. “L’ultimo essere a morire è la morte” è detto poiché essa non ha senso senza il tempo e, in quel frangente, il primo e l’ultimo nell’ordine della manifestazione si ricongiungeranno. 

  La successione, la concatenazione delle cause che producono effetti a loro volta cause di altri effetti e così via è potenzialmente indefinita. Unico sbocco è un intervento soprannaturale che trascenda il piano orizzontale degli eventi. 

  Dal punto di vista microcosmico si può dire che un singolo essere immerso nel flusso dell’esistenza utilizza il lume della ragione per districarsi nelle contingenze ma senza la pretesa di emanciparsene. 

  Pavel Florenskij ha studiato le filastrocche ripetitive presenti ovunque suggellandone il senso in questa frase: “La dimostrazione razionale crea nel tempo il sogno dell’eternità, ma non permette mai di attingere l’eternità.”[4] Razionalmente siamo in grado di capire che il cane morde il gatto e poi è colpito dal bastone etc. etc. ma non possiamo così uscire dalla corrente delle forme, dal vortice del Samsara. 

  Il ricollegamento con la sfera principiale, ottenibile con quella facoltà detta Buddhi, l’intelletto trascendente, permette di superare le limitazioni relative allo stato dell’essere e sfuggire all’apurva e alle azioni e reazioni che ci imprigionano.

  La stessa logica che è legata al manas (che comprende ragione, memoria e immaginazione[5]) non è un monolite immutabile. I modi di ragionare dei popoli variano nel tempo e nello spazio.

  Coomaraswamy individua tracce di logiche “alternative” di impronta unitaria, nell’uso di termini che hanno, contemporaneamente, significati antitetici[6]. Egli la definisce ‘logica primitiva’, non astrattiva da una molteplicità ma deduttiva da un’unità preesistente. Gli apparenti paradossi che ne derivano sono accostabili ai Koan Zen che hanno come fine lo scardinamento dei vincoli razionali.  

  Se si prende come faro la ragione, idealizzando l’età dei lumi e sbeffeggiando il semplice fedele, immagine dell’illuso povero di spirito, non si rischia di continuare a girare in tondo, ad esaltare la ricerca della verità e non la Verità? Ricordo ancora una frase che lessi come didascalia di un poster che raffigurava un paesaggio di montagna che recitava così: “È più facile negare le vette che insanguinarsi le mani per conquistarle”. Che posizione comoda invece quella di chi, dall’alto di un’istruzione superiore, elargisce la sua visione del mondo ultrarazionale, libera dai pregiudizi del popolino, condita da una tolleranza che rasenta l’indifferenza, a patto di non essere contraddetto, e si realizza con la beneficenza materiale, magari ben pubblicizzata. Ma di quanta elemosina spirituale, se fosse in grado di riceverla, avrebbe bisogno una mentalità del genere?

  L’altra scelta quale può essere? Gettare logicamente la ragione nel cestino? Attendere a piè fermo l’ineluttabile reintegrazione nell’Essere Supremo senza colpo ferire? Non proprio.

  Guénon scrisse nel 1911 a firma Palingenius  (riporto in lingua originale per non travisare) :

“…pour nous, le Grand Architecte de l’Univers constitue uniquement un symbole initiatique, qu’on doit traiter comme tous les autres symboles, et dont on doit, par conséquent chercher avant tout à se faire une idée rationelle,”[7]

  Da dove si comincia? Con l’utilizzo dei mezzi che abbiamo a disposizione, e il primo approccio è giocoforza discorsivo, esplicativo e razionale. La sollecitazione prolungata dovuta alle letture di testi di contenuto tradizionale potrà risvegliare le facoltà sopite come i ripetuti colpi di maglietto e scalpello levigano la pietra grezza.

  Non sempre le cose vanno così, le vie del Signore sono infinite e c’è chi viene disarcionato sulla  via per Damasco senza troppi complimenti. Ma è più frequente ai nostri tempi il cambiamento di pelle graduale che necessita di un continuo lavoro ai fianchi per costruire quella preparazione teorica premessa indispensabile per ogni tentativo di realizzazione.[8]

  A mio avviso rigettare la ragione anzitempo non giova a nulla così come restarvi legati ossessivamente e scambiarla per l’unico riferimento. Quel sentore di Intelletto trascendente che traspare e che come una lepre fa fugaci apparizioni, ci invita a superare la Porta Attiva[9] che conduce ai mondi superiori. Per Coomaraswamy una “porta attiva” può aprirsi e richiudersi velocemente in modo da ferire o uccidere chi la attraversi lentamente o senza le dovute qualificazioni. L’esempio biblico più chiaro è quello del Mar Rosso che travolse l’esercito del Faraone, capo della controiniziazione avversa al Popolo Eletto, che invece attraversò incolume le acque.

  Chi rifiuta o ignora questa via d’uscita, questo ponte con l’aldilà, si ritrova, per saziare la voglia di conoscere, a sviluppare in modo abnorme l’analisi per trovare un ubi consistam nei lembi della realtà fisica. Assistiamo così a imponenti sforzi nell’individuazione della “particella di Dio” al CERN di Ginevra con apparecchiature sempre più colossali simili a templi del culto della scienza.

   Abbiamo avuto recentemente un assaggio degli scompensi provocati da una tecnocrazia sempre più avvolgente e disumana, che spinge verso quell’uniformità[10] anonima e svilente in un mondo governato dagli algoritmi.

   Oggi più che mai vale la frase dal Vangelo di Giovanni (8,32):

"Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi".

 

 

 

 

 

 

   



[1] Da Wikipedia.

[2] Tratto da https://mikimeta.wordpress.com/2008/10/15/alla-fiera-dellest/ dove si può anche ascoltare la canzone.

[3] R. Guénon, “Il regno della quantità e i segni dei tempi”, Adelphi, Milano 1982, c. 23.

[4] P. Florenskij, “La colonna e il fondamento della verità”, Rusconi, Milano 1998, p. 67.

[5] R. Guénon “L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta”, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1965 p. 86.

[6] A. K. Coomaraswamy, “Il grande brivido”, Adelphi, Milano 1987 p. 424. Che dire inoltre del detto evangelico (Mt.16 v.25)  “Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”

[7] R. Guénon, “Études sur la Franc-maçonnerie et le Compagnonnage” II, Éditions Traditionnelles, Paris 1978 p. 282.

[8] Id., “Oriente e Occidente”, Luni, Milano 1993, p. 163.

[9] “Le Simplegadi”  a p. 417  de “Il grande brivido” cit..

[10] V. “Regno della quantità…” c. 7 “L’uniformità contro l’unità” e c. 9 “Il doppio senso dell’anonimato”

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